CAPITOLO SECONDO

Il dente

 

Quattro giorni dopo, riposavo in una tenda del comando di tappa di A.

Dovevo prepararmi al ritorno e non ne avevo nessuna voglia, anzi un torpore persino piacevole m’immobilizzava le membra; ma niente di strano che non avessi riacquistato le forze, il dente non dava tregua. Non c’era un dentista ad A. e la mia sosta era stata inutile. “Quattro giorni sciupati” pensavo. Dunque, per colpa del dente non ero stato capace di muovermi, avevo sentito il brusio di quella cittadina arrivare sino alla mia branda, e ora dovevo andarmene, tornare al campo o non avrei giustificato il mio ritardo. Forse proprio questo pensiero mi stava togliendo ogni forza.

Sdraiato sulla branda vicina un giovane fingeva di leggere, ma in realtà mi stava spiando di sopra gli occhiali. Era un giovane dalla faccia rotonda, con un paio di baffetti che mettevano un pretesto di ironia sulle sue labbra; indossava ancora la giubba, non s’era tolto il casco e nemmeno gli stivali. Fissava, sì, lo sguardo sulla pagina, ma i suoi occhi badavano a non perdere ogni mio lieve movimento. Fumava un sigaro. Quel sigaro, sul suo volto fanciullesco, rammentava gli sgorbi che i ragazzi fanno invariabilmente alle figure dei loro libri di scuola. Era stato appunto il fumo del sigaro a svegliarmi, nauseandomi. “Per favore,” dissi “il sigaro.”

Il giovane, era un sottotenente (e della mia divisione), buttò il sigaro fuori della tenda facendolo schizzare con le due dita che lo reggevano. Con quel gesto voleva mostrarmi il suo disappunto. Si rimise a leggere, senza più degnarmi di attenzione e io invece seguitai a osservarlo tra le ciglia socchiuse. Un attimo dopo aveva già tolto un altro sigaro dal taschino e l’aveva messo tra le labbra, senza però accenderlo, ma tormentandone la punta coi denti. Ora leggeva davvero e voltò pagina.

La nausea mi faceva groppo alla gola e il dente cominciava a dolermi. Erano fitte improvvise che incendiavano il cervello. Per qualche tempo l’immagine del silenzioso lettore sparì dietro un velo di lagrime. Avevo voglia di urlare. “Scusami” dissi, invece, dopo che la fitta si fu addolcita. Il sottotenente sorrise. La mia faccia sconvolta non lo indusse alle cerimonie, solite tra due ufficiali che si incontrano in una tenda di comando tappa. Riprese a leggere e, poco dopo, interpretando la mia interruzione come a lui meglio conveniva, accese il sigaro. Sembrava però soddisfatto di avermi svegliato, forse si annoiava. Accese il sigaro e guardò il mio orologio, che avevo messo sulla sedia, e non lo guardava certo sperando di leggere l’ora a quella distanza. Lo guardava fisso, poi ancora tornava a fissare il sigaro o il libro.

Presi l’orologio (l’orlo del cinturino era macchiato), e mi volsi dall’altra parte. Dovevo prepararmi al ritorno al campo, oppure proseguire sino al prossimo dentista. Ma dove avrei trovato un dentista? E il ritardo? Quando il sottotenente mise il libro sotto il cuscino e se ne andò, lo chiamai e gli chiesi se aveva una compressa contro il mal di denti. Non ne aveva, ma se fossi andato con lui mi avrebbe indicato dove avrei potuto trovarne: parlava cortesemente e la sgradevole impressione del primo momento dileguò. Uscendo dal comando tappa, ci avviammo verso un boschetto di eucalyptus. Là, sulla soglia di una baracca di legno, immerso in una sedia a sdraio, trovammo un ufficiale medico che mi ascoltò a malincuore, e andò a prendere un tubetto di compresse nella sua baracca. Pensai di profittarne per cambiarmi la fascia alla mano ferita. Allora, chiamò l’attendente e, volutamente ignorandoci, si rimise a sedere.

Era un uomo sui quarant’anni, leggeva vecchi giornali, indifferente al disordine che lo circondava. C’erano per terra due macchinette per caffè, giornali accartocciati, libri, stivali sporchi, e le varie parti di una motocicletta smontata: e l’attendente, invece di occuparsene, fischiettava. L’ufficiale sembrava immerso nelle sue letture e così lo lasciammo. Ma come trascorrere il pomeriggio, ora che il mal di denti si era placato, lasciandomi però una sorda memoria alla mascella?

Qualcuno mi chiamava. Era un maggiore. Quando mi avvicinai disse che avrei fatto bene a radermi. Levò appena un dito verso le sue guance lustre e ripeté la frase, seccamente. Mi guardava tenendo la testa eretta e poiché continuavo a fissarlo, aggiunse che potevo andarmene. Salutai, e il maggiore, con tono più dolce, disse un: “Va bene” e si allontanò. Era un uomo alto e grosso, vestiva con molta cura, camminava tenendo le mani dietro la schiena. Non immaginai, in quel momento, che l’avrei rivisto in tutt’altra occasione. Anche il dottore avrei rivisto. No, non potevo saperlo e seguitai col tenente verso la piazza.

Era una piazza informe, la vedevo per la prima volta e ne ebbi la struggente sensazione di un luogo che abbiamo immaginato e visitandolo non ci disillude, perché la realtà vince l’immaginazione e anzi questa si accorge di aver trascurato gli apporti della luce e dei suoni, l’ammorbidirsi dell’aria al crepuscolo, quando gli alberi si chiudono come ombrelli e le case respirano la stessa tristezza che ci fa rallentare il passo. C’erano anche là grandi eucalyptus e si camminava senza rumore sulle foglie cadute, per strade senza selciato e senza marciapiedi. Tra le case appariva la collina di granito e là sotto sfavillava la lampada a petrolio di un’osteria. Gli indigeni sedevano ai loro scanni, serviti da una grossa etiope vestita di rosa: era l’unica macchia rosa in quel grigio. Dalle strade venivano rumori d’artigiani, passavano donne dirette alla cisterna con latte da petrolio vuote, e sotto un albero immenso due uomini sedevano senza parlare, in attesa di qualche biblico viandante. Come le persone anche i luoghi raggiungono una loro felicità e quella piazza dimenticata e sconnessa esprimeva la pace dei tempi che non tornano. Quasi indovinando il mio pensiero, i due uomini che sedevano sotto l’albero si levarono in piedi e, prima di separarsi, si baciarono sulle guance.

L’uomo che veniva verso di noi era molto vecchio e camminava guardando a terra, come preso da un pensiero che gli impedisse di affrettarsi. Ci eravamo seduti, io e il sottotenente, sui gradini della baracca del telefono, attratti da quella baracca dove passavano le notizie: se fossero state buone notizie (per esempio, la notizia di un reparto che rientrava in patria), il centralinista ce le avrebbe passate con sottintesa speranza.

Ero nauseato, ma soltanto per il troppo languore, e sentivo appena le parole del sottotenente. Mi stava narrando qualcosa ch’era successo, un altro attacco di briganti a un cantiere, c’erano stati molti feriti, nessun morto per fortuna; ma la notizia non m’interessava e non feci domande. E allora, forse incoraggiato dal mio silenzio, mi chiese se conoscevo la storia dell’aeroplano-lattuga. Non risposi. Il vecchio si stava avvicinando e quando ci passò davanti, sempre col suo sguardo fisso a terra, lo riconobbi, era il vecchio che accompagnava il prete lungo il sentiero della boscaglia. Andava a piedi nudi, sempre più immerso in un pensiero forse insostenibile, che gli faceva a volte trattenere il passo e considerare le cose che lo circondavano. O forse era soltanto infastidito dai ciottoli nascosti tra le foglie cadute. Passando davanti alla baracca vidi che raccattava qualcosa (il mozzicone della sigaretta che avevo gettato poco prima?), poi scomparve dietro la palizzata del recinto. Riapparì ed era diretto verso le ultime case. Poco dopo, entrava in una di quelle, anzi sostava sulla soglia, con le spalle volte alla piazza.

Avrei volentieri lasciato quel ragazzo, ma il pensiero della sera che già incombeva mi trattenne e seccamente risposi che non conoscevo la sua storia e che la narrasse pure. Non sembrò affatto sensibile alla mia scortesia e disse che era la storia di un aeroplano addetto alla ricognizione. Veniva ogni mattina da un campo della vecchia colonia e, prima di iniziare la ricognizione di là del fiume, gettava sulla tenda del generale un pacco di lattuga. Era così puntuale quell’aeroplano nel portare la lattuga che gli armati indigeni di là del fiume, quando lo vedevano apparire regolavano l’orologio.

“Ammesso,” aggiunse il sottotenente “che possedessero un orologio.” E, dette queste parole, si distrasse un attimo prima di ricominciare.

Il vecchio parlava adesso con una giovane donna, sempre voltando le spalle alla piazza. Restava immobile, mentre la donna, fattasi sull’uscio, guardava attorno e accennava ora verso l’osteria ora verso il comando tappa, parlando in fretta. E infine rientrò, e poco dopo il riquadro della porta si illuminò vivamente; la donna aveva acceso una lampada. Il vecchio si allontanò verso l’osteria, ora piena di gente e sempre più illuminata per effetto della sera che assorbiva la piazza.

“Dunque,” riprese il sottotenente “l’osservatore dell’aereo non vedeva mai un armato, dall’altra parte del fiume. Nemmeno uno? Nemmeno uno. E allora il generale pensò che era tempo di mandare un reparto a dar prova di forza, prima dell’offensiva finale; e il reparto partì a malincuore, tutti sapevano che di armati ce n’erano anche troppi dall’altra parte. E l’ufficiale che comandava il reparto, un giovane silenzioso, sorridente, prima di andare mi disse: “Odio la lattuga”. Nient’altro. Doveva andare e non la fece lunga.”

(Il vecchio stava parlando con l’etiope vestita di rosa, che rispondeva con larghi gesti delle braccia e quindi lo invitò a sedere. Il vecchio sedette vicino alla porta e restò a guardare la piazza, ma senza vederla perché i suoi pensieri erano certamente altrove; e, quando l’etiope gli porse una coppa, la prese e chinò il capo, ma la tenne tra le mani, e non sì decideva a portarla alle labbra.)

“Bene,” chiesi “com’è finita?”

Il sottotenente si scosse: “La sera stessa,” rispose “vedemmo ritornare un soldato, un ascari, che si teneva le mani sul ventre. Traballava un po’, sembrava ubriaco. Nelle mani aveva le budella, ed era l’unico che si fosse salvato”.

Scoppiò a ridere. Pure, quella falsa risata ridiede anche a me un po’ d’allegria. “Non è il caso di prendersela,” dissi “la guerra è fatta anche di queste storie, di giovani che studiano belle lettere o musica e dopo un anno cadono per l’insalata del generale. Nessuno ha colpa.”

“Già, nessuno,” disse il sottotenente “non certo l’aeroplano.”

“E nemmeno il generale” dissi “ha colpa. Alla sua età bisogna nutrirsi saggiamente.”

“Sì,” disse pensieroso il sottotenente “nessuno. L’unico, forse, quel soldato che resiste ai colpi della sorte e sfida la logica. Suvvia, andarsene qua e là con le budella in mano. Non è leale. Non è leale guarire, in certi casi.”

Guardai il sottotenente. Perché aveva voluto raccontarmi quella storia? Forse... Ogni dubbio che egli avesse parlato con intenzione sparì quando l’ebbi osservato: il suo volto fanciullesco, quei baffi senza pretese, quegli occhiali con una stanghetta rabberciata, ispiravano fiducia. Ancor più ispirava fiducia quel sigaro inadeguato che tradiva tutte le sue ambizioni. Mi calmai. Era la prima volta che ridevo dopo tanti giorni e la piazza di quella cittadina sembrava ora promettermi molto di più di quanto avrebbe potuto darmi.

Ne facemmo il giro. Dalla piazza partivano varie strade, una delle quali portava alla chiesa, un edificio che vedevamo in fondo a un cortile, tra due baracche a veranda. Era una vecchia opera del periodo portoghese, nobilmente invecchiata, asimmetrica, in piedi per miracolo, e ci fermammo a osservarla. Quel rivedere dopo tanti mesi una parvenza di edificio costruito non per istinto ma per intelligenza mi dava una gioia profonda, che non sapevo a che legare. Quando lo seppi, ridivenni triste.

Inghiottii una pastiglia, perché il dente aveva ripreso a dolermi, e mi si sciolse in bocca, amarissima.

Dov’era il vecchio? Non vedevo più il vecchio sulla soglia dell’osteria.

Fissavo lo sguardo nelle ombre della piazza, quando lo vidi venire verso la chiesa. Camminava più svelto, il busto inclinato in avanti, e varcò il cancello prima di noi, dirigendosi verso la porta della chiesa. Sparì assorbito dall’ombra delle piante, nel cortile dove vagavano altre ombre silenziose.

“Entriamo?” disse il sottotenente. Gli risposi che era già tardi, non avremmo visto nulla con quel buio. Le strade si stavano spopolando e l’idea di tornare alla tenda del comando tappa e là aspettare l’ora di cena non ci piacque, meglio vagare in attesa della notte. Ci fermammo e il sottotenente propose di chiedere ospitalità a qualche ragazza, a quelle due che occhieggiavano verso di noi, ridendo, scambiandosi impressioni certo lusinghiere. Il mio compagno non aveva finito di comunicarmi la sua proposta che già questa era stata sulle soglie più prossime, suscitando risa trattenute, battere di porte e insomma un’agitazione che non potevamo ormai deludere. “Io non vengo” dissi, ma ormai sulla ci attendevano le due ragazze, che sorridevano.

Il sottotenente (doveva essere abbastanza pratico degli usi locali) gettò una moneta sul tavolo e si sdraiò sul letto che occupava tutto un lato della stanza. Una ragazza corse via a prendere due bottiglie di birra, io sedetti e l’altra ragazza si accostò dicendo alcune parole, ma non capivo: e allora si mise a caricare un fonografo con una prudenza piena di orgoglio, perché quello era un miracolo che si ripeteva ogni volta, a suo piacere. Non potevo staccarle gli occhi di dosso ed evitavo di rivelarmene la ragione. Quando ebbe finito, la ragazza mise una marcia militare; poi, a caso, un altro disco, ed era la canzone che Lei canticchiava talvolta nel bagno. “Forse farei bene a scriverle” pensavo.

La ragazza venne ancora a parlarmi e io le sorrisi, fingendo di capire, ma la vedevo appena e soltanto il brillare improvviso dei suoi denti mi diceva che quell’immagine sfocata viveva. Vedevo invece il canale di Suez al tramonto, con quel soldato arrampicato sulla coffa che cantava disperatamente al deserto e che tutti stavamo ascoltando, perché ci faceva ridere e ci commuoveva (avevo ancora nella cabina i fiori e qualcuno ne avrei conservato tra le pagine di un libro). La nave avanzava così piano che sembrava quasi spinta dalla voce del soldato.

Non era possibile andar via. Ora le due ragazze stavano bevendo, meravigliate che rifiutassimo, e già nella stanza cominciavano a entrare parenti e vicini coi loro bimbi, attratti dalla singolare munificenza del sottotenente che aveva mandato a prendere altra birra. E quella canzone così indulgente e sentimentale che altrove mi avrebbe fatto sorridere, bisognava accettarla per Lei e per quel soldato che s’era arrampicato lassù e stava urlando di malinconia al deserto. Passato Suez la festa si sarebbe conclusa, mesi di lontananza da segnare sulla cinghia col temperino. E, al ritorno, la donna amata che canta nuove canzoni e sorride dei sentimenti superati. “Resteremo qui molto?” chiesi al sottotenente.

Stava sempre sdraiato sul letto, quel curioso amico, senza far caso alla piccola folla deferente che ascoltava il fonografo, sorridendo e forse convinta di lusingarci. “Ti annoi?” rispose e cominciò a parlare con le donne che invadevano ormai la stanza. Erano donne anziane, pesanti e avvizzite, ma allegre, e ridevano a ogni parola del mio amico. Quanto alle due ragazze, non mostravano nessuna fretta di concludere il loro mercato e sembravano divertirsi più di tutti, felici che la loro dimora fosse teatro di una vera festa. Guardando, vidi che oltre quella c’era un’altra stanza. Ne intravedevo il letto e, in fondo, la porta che dava su un cortile. I bimbi cominciarono a giocare tra loro, rincorrendosi per la stanza e rovesciando gli sgabelli: nessuno li rimproverava.

Quale personaggio aveva lasciato alle due ragazze il fonografo? Tutta la loro fierezza era ormai concentrata in quel possesso, l’avevano messo sopra un trespolo e, per cambiare i dischi, dovevano salire su uno sgabello. Così, ero annaffiato da voci nostalgiche, che aggiungevano alla mia malinconia la noia dei ricordi inutili. Fu accesa la lampada a petrolio e dense ombre si formarono agli angoli della stanza, mentre le donne (quante erano? provavo a contarle ma sempre dovevo ricominciare daccapo, forse erano nove, forse dieci) sedevano chiacchierando in attesa che il caffè bollisse.

Come gli anni le rendevano cupe, più laide. Nei loro occhi non si poteva leggere nulla, se non la noia della decadenza. Il tempo le aveva definitivamente sconfitte. “Ancora due o tre giorni” pensai “e tornerò al campo. In tre giorni si fanno molte cose, non tutte quelle che avevo in mente prima della partenza, ma si ripiglia elasticità, ci si rade, si va a spasso, si prova a leggere quel libro che il sottotenente conserva tra i cuscini. Chissà che specie di letteratura (forse macabra, perché costui ha il gusto delle storie macabre e maschera la sua debolezza di cinismo), ma l’importante è non tornare al campo domani.”

Il maggiore passò con studiata lentezza davanti alla porta spalancata. Era forse tentato di entrare, ma proseguì facendo finta di non averci visto e pensai che sotto la sua paterna scorza covasse una mai soddisfatta libidine. Si era fermato poco distante e stette a lungo incerto se entrare o no, prima di andarsene. Quando si allontanò, venne una delle ragazze, quella che prima mi aveva sorriso (e quel sorriso ora mi sorprendevo a desiderarlo), a offrirmi il caffè.

Mi lasciò la tazza sul palmo della mano e stette ferma, in attesa di vedermi bere. Si chinò sorridendo verso di me e nella scollatura della tunica le vidi il seno. Poi disse qualcosa, venne a sedermisi accanto, infilando un braccio sotto il mio. “Non sarà tardi?” chiesi al sottotenente.

“No” rispose. Poi aggiunse: “Ormai non possiamo offenderle con una fuga. E ricordati, nel bere il caffè, che costoro adoperano sale invece di zucchero”.

Tenevo in equilibrio la tazza sul palmo della mano e ascoltavo le parole di lei, che non capivo, ma volevo ascoltare; e quando il suo seno mi toccò la spalla, tentai di scostarmi e rovesciai la tazza. Tutti risero, la tazza fu di nuovo riempita e di nuovo sentii il seno della ragazza, libero nella tunica, sopra il mio braccio. Stavo fermo come il fidanzato davanti alle parenti che non disapprovano: aspettavano forse un mio cenno e il suo seno urgeva sempre, ma con estrema pigrizia e se appena la guardavo, smarrito che osassi guardarla, le si apriva il volto a un sorriso di innocente complicità. Volevo andarmene, ma non sarei arrivato alla porta, forse la piccola folla delle comari me lo avrebbe impedito, o sarei caduto a terra, e poi il sottotenente s’era messo a parlare con uno dei bimbi e tutti seguivano quella conversazione, ridendo insieme alle risposte del bimbo. La grossa madre delle due ragazze (era la madre, perché si preoccupava delle loro acconciature e le rimirava con orgoglio) rideva più di tutte, contando i biglietti che il bimbo aveva guadagnato, non capivo come.

E poi, se avessi trovato la forza di scriverle! “Anzi, è deciso,” pensai “scriverò stasera stessa, inutile procrastinare.” Provai tale conforto a quella decisione che tutto mi sembrò piacevole in quella stanza e cominciai a ridere col bimbo, mentre la ragazza più mi si stringeva al fianco, ridendo anch’essa. Feci dire al bimbo tutto il suo italiano: e lui in fretta, a volte impuntandosi a guardare il soffitto, quasi a chiedergli aiuto, o corrugando il viso nello sforzo di ricordare, ma sempre facendomi cenno di non suggerirgli, elencò il repertorio. La maggior parte erano parole indecenti. “Sono le indispensabili,” disse il sottotenente “il resto è letteratura.”

Poiché il bimbo continuava, lieto di sostenere l’esame davanti ai suoi, che potevano così ammirarlo, fui preso da un accesso di riso e la ragazza fece appena in tempo a togliermi di mano la tazza ancora piena.

Mentre cavavo di tasca il fazzoletto per asciugarmi gli occhi, vidi il vecchio in fondo al cortile. O era qualcuno che gli somigliava molto. No, era lui, guardava attraverso la porta aperta, attirato da quelle risa, poi avanzò sulla soglia, stette a guardare, e infine attraversò la stanza, ch’era buia, e venne sulla soglia della stanza dove eravamo noi.

Nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Il vecchio restava fermo sulla soglia e il suo sguardo si soffermava su tutti, uno alla volta, come chi cerca qualcuno e vuole accertarsi bene prima di desistere. Il suo volto esprimeva già la certezza dell’insuccesso, pure gli occhi scrutavano, sostando, e li vedevo apparire di sopra le teste delle donne che bevevano il caffè. Intanto la ragazza s’era levata in piedi e, salita sullo sgabello, aveva tolto il disco, senza metterne un altro.

Era questo il segnale che le altre donne aspettavano e, confusamente, cominciarono a lasciare la stanza, poiché la festa era finita. Venne la grossa madre a togliermi dinanzi il bimbo, e lo sculacciava ridendo, indicandogli la porta.

Infine rimasero le due ragazze e, senza fretta, rassettarono il tavolo, liberandolo delle tazze. Quella che avevo avuto accanto, volgeva a tratti il volto verso di me e sorrideva: poi prese a canterellare, a voce bassa, la canzone di prima. Ma così lentamente che stentavo a riconoscerla.

Tutti erano andati via e allora il vecchio entrò nella stanza e parlò alla ragazza che cantava. Parlava in fretta, nella sua lingua, con una voce sgradevole, gutturale. Dopo averlo ascoltato, la ragazza accennò negativamente col capo, si volse poi all’altra ragazza e ripeté quanto le aveva detto il vecchio, perché sentivo quasi le stesse parole, e un nome sempre ripetuto: Mariam (forse era il nome di una delle ragazze). Anche l’altra ragazza rispose qualcosa che non soddisfece il vecchio.

Non se ne andava. Stava fermo vicino alla tavola e mi volgeva le spalle, appariva stanco. Senza che nessuno lo invitasse, sedette e la ragazza (che aveva ripreso a cantare con una lentezza insostenibile e a tratti mi sorrideva) gli offrì una tazza del caffè ch’era rimasto, forse la stessa che io avevo rifiutato.

Il vecchio bevve, poi si volse al sottotenente e disse qualche parola. Il sottotenente rispose.

Il vecchio non mi aveva mai guardato e appena mi vide si fermò a considerarmi e accennò un breve saluto con la testa. Ero seduto in un angolo e coperto dall’ombra della lampada. Infine il vecchio si alzò e disse in italiano: “Buona sera” e uscì dalla porta di strada. Lo seguii con gli occhi, nel vano della porta. La sua figura impiccioliva e ben presto la macchia bianca della sua veste si confuse nell’ombra.

“Che voleva?” chiesi al sottotenente.

“Nulla” rispose. Non insistetti, perché già la mascella cominciava a dolermi e la fitta saliva verso l’occhio e la fronte, come una spada ben ferma in una mano crudele, che insiste e fruga cercando di arrivare al cervello.

“Andiamo via” dissi. Ma il sottotenente non si mosse, e neppure io fui capace di muovermi. Le due ragazze stavano chiudendo la porta e allora mi alzai in piedi, feci capire che avevo bisogno d’aria, di respirare. Lasciarono la porta socchiusa, e io sedetti sullo scalino. Attraverso lo spiraglio, ancora una volta vidi passare il vecchio, diretto verso altre case, in quella ricerca che sapevo inutile.

La mattina dopo, io e il sottotenente prendemmo un camion per Asmara, lui deciso a divertirsi, io a cavarmi il dente.

Non era un bel film, eppure l’avevo già visto parecchie volte. Ogni giorno, benché cominciassi a vergognarmi di questa debolezza, uscivo dall’albergo, deciso a far quattro passi: andavo sino ai giardini, guardavo la valle, entravo in un bar a bere un aperitivo e poi, insensibilmente, eccomi davanti alle fotografie di quel film che avevo visto già tante volte, anche in Italia. Temevo che la cassiera potesse riconoscermi, quel giorno, e meravigliarsi di una tanto ostinata ammirazione, ma non mi riconobbe e poco dopo ero nel sogno che mi dava la calma ottusa di uno stupefacente.

Sapevo perché quel film mi dava tanta calma. C’era qualcosa negli occhi di un’attrice secondaria (oh, niente di eccezionale), qualcosa che mi ricordava altri occhi. Una pace struggente mi confortava quando quegli occhi roteavano sicuri sullo schermo; mi rimettevo a essi e cercavo di vivere col ricordo di Lei, di rintracciare, nei più dimenticati ricordi, i momenti della nostra felicità. E me ne vergognavo.

Quando si riaccese la luce ero affranto, perché di nuovo ero solo. Ora, se un motivo poteva indurmi al ritorno al campo era soltanto la risposta di Lei alla mia lettera. Era là che mi aspettava, nella tenda del postino, e io invece indugiavo. Aspettavo da quella lettera una qualsiasi assoluzione, una frase abbastanza semplice, che mi sciogliesse la paura. Forse Lei aveva capito, benché nella mia lettera non avessi alluso a nulla, ma soltanto ripetuto che avevo bisogno di Lei, che mi mancava il respiro tranquillo delle lunghe serate accanto al fuoco, le sue risposte impensate. Eppure bisognava tornare al campo, affrontare la discesa del fiume, riprendere il cammino verso le terre che temevo.

Dopo otto giorni che ero in quella città, spaventato della mia inerzia, decisi di far qualcosa. Intanto dovevo farmi cavare il dente, che ora non mi doleva più. Ma se fossi tornato anche col dente, il mio viaggio sarebbe suonato addirittura un’offesa per gli amici rimasti al campo.

Quando il dentista mi mostrò quel maledetto molare sulla pinza, respirai. “Lei mangia troppi dolciumi” disse scherzosamente il dentista. “Sì,” pensai troppi dolciumi nei suoi pacchi. Le debbo scrivere che mandi più libri o altra roba, ma non dolciumi.” La giovane assistente prese il molare (prima lo volli guardare, quell’acerrimo nemico e scrutare il segreto della sua forza: dunque, a lui dovevo un mese di sofferenze), e lo avvolse in un batuffolo d’ovatta “Lo tenga,” disse sorridendo “allontana il male. “

“Davvero?” Ma subito dopo sorrisi. Tuttavia, prima di andarmene, poiché nel frattempo la giovane assistente s’era distratta, presi il batuffolo e lo misi nel portafogli. La mia lingua andava spessissimo alla gengiva e ogni volta mi ripigliava l’affanno della partenza ormai inevitabile.

La discesa del fiume, questo era il punto. Ma forse avrei anche trovato il tempo di farci un bagno, nel fiume, se vi fossi giunto nelle ore della canicola. Forse i defunti si divertono a perseguitarci quando siamo lontani dai loro luoghi ed è perciò necessario tornarvi, passeggiare a fronte alta tra le piante della boscaglia, guardare lo scoiattolo, offrire sigarette al camaleonte. Ma ora la vita della città mi stava ridando qualcosa che temevo di perdere una volta laggiù, temevo soprattutto di stancarmi, di non resistere. Avevo sì deciso che tutto era stato uno sbaglio, però uno sbaglio che non poteva essere “sbagliato” altrimenti. La realtà era questa realtà della vita cittadina, che calma e distrae; i negozi, il bar, la tovaglia bianca, l’attrice secondaria che si anima solo per me. La mia giornata aveva preso un ritmo lento, in cui i nervi s’erano quasi assopiti. Dalla finestra della stanza che occupavamo io e il sottotenente, si vedeva lo spettacolo di una folla civile, pigra, provinciale, soddisfatta, ma insostituibile. Se guardavamo oltre i giardini, nella valle dove il cielo si stendeva come un enorme sipario, subito moriva il discorso e ne sapevamo la ragione. “Il mare è da quella parte” disse una volta il sottotenente e sentii che il cuore gli si stringeva, come a me.

Che bisogno c’era di dirlo? Forse il mio giovane amico non sapeva tacere, apprezzava il silenzio soltanto per il valore delle pause. Piuttosto, quando l’avremmo rivisto quel mare sporco ma eguale per tutti? Sì, sarebbe stato prudente tornare subito al campo, brigare per la licenza, accampando un qualsiasi tenace malessere. Stando lì a perdere tempo potevo compromettere ogni cosa, se già tutto non era compromesso. Forse laggiù il mio nome, alla mensa, non veniva fatto nemmeno con rabbia, ma con sorpresa e curiosità. Altri ufficiali aspettavano il mio ritorno per chiedere a loro volta un permesso.

Il sottotenente s’era ancora una volta sdraiato sul letto e leggeva quel suo interminabile libro. “Io vado” gli dissi.

“Dove?”

“Al campo. Me ne ritorno. “ Si rimise a leggere e non alzò mai gli occhi, nemmeno quando vide che preparavo davvero lo zaino.

“Forse ci rivedremo” dissi, appena fui pronto.

“Perché no?” E finse di guardare la pagina, veramente arrabbiato. Sentiva che la mia fuga rendeva inutile anche la sua resistenza, anche lui avrebbe dovuto rifare lo zaino e andarsene. Ma, come nei giorni precedenti m’ero confortato all’idea di tornare insieme a lui, almeno sino alla cittadina in cui c’eravamo incontrati, così in quel momento sentivo che dovevo andarmene solo. Perché sapevo bene come finiscono certe imprese: si decide di partire, anzi si parte e alla prima tappa si torna indietro, sollevati da un peso, decisi a far pazzie e a ridere delle conseguenze.

Stavo per uscire dalla stanza, quando il sottotenente mi chiamò. “Lasci l’orologio” disse.

Arrivai sino al comodino e lo presi. Mentre lo affibbiavo al polso (adesso mi biasimavo di non averne comprato un altro, ma troppo tardi, i negozi erano chiusi quel giorno), il sottotenente aggiunse: “Quel cinturino è sporco. Cambialo e buona notte”.

“Lo cambierò” dissi e uscii senza aggiungere altro, pieno di rancore. Adesso ero lieto della mia risoluzione di andarmene.

Man mano che abbandonavo i segni della civiltà, scomparso il catrame dalle strade, scomparsi i bar, mi riafferrava la malinconia, e l’inquietudine per ciò che mi attendeva al campo, dove avrei dovuto giustificare la mia lunghissima assenza.

Il camion si fermò al comando tappa che già conoscevo e il carabiniere disse al conducente di far salire qualcuno Gridò verso la garitta e intanto ci sorrideva; e da dietro la garitta apparve il vecchio indigeno, e poi un bimbo, quello stesso che avevo visto così lieto nella boscaglia, mai stanco di ammirare la danza del suo giovane amico. Quando ripartì, vidi attraverso il finestrino della cabina che il vecchio s’era seduto e mi volgeva le spalle mentre il bimbo, in piedi, gridava di gioia per quella gita.

Il vecchio mi volgeva le spalle, che vedevo curve e scarne. Reggeva tra le lunghe mani il bastone e con un dito lisciava la canna distratto, senza ascoltare ciò che il bimbo gli urlava ogni tanto. Guardava fisso davanti a sé e la sua testa si muoveva disordinatamente per le scosse del veicolo. Dopo qualche chilometro, calando la sera, profittai di una sosta del camion per scendere. “Io non proseguo” dissi al soldato, e restai su quella collina da dove si dominava l’altopiano. In fondo vedevo stagliarsi le montagne della mia prigionia, ma infinitamente più piccole e magre: dunque, da quella parte era il fiume.

Ripartito il camion, rimasi solo; non sapevo cosa fare ma non ero pentito della mia improvvisa decisione. Pensavo di ritornare ad A. Quella cittadina, col suo comando tappa, con le ragazze del fonografo, con la piazza percorsa a quest’ora dal placido passeggio delle donne dirette alla cisterna, poteva placarmi. Dovevo tornare dalle ragazze del fonografo e non rimettermi mai più su quelle strade che odiavo e che mi apparivano funeste. Il giorno dopo sarei tornato all’Asmara. E al diavolo le conseguenze.

Passavano indigeni diretti verso la cittadina e mi salutavano fermandosi a molti passi, aspettando che mi accorgessi di loro e che li lasciassi proseguire. Se ne andavano tetri e fiduciosi, forse meravigliati di vedere un ufficiale solo da quelle parti. E perché, scendendo dal camion, avevo sentito il bisogno di regalare quella moneta al bimbo?

Dopo mezz’ora passò un camion che mi riportò ad A. Era scesa la sera e, invece di recarmi al comando tappa, presi a girare per le strade più quiete, quasi chiedendo alle mura di quegli orti chiusi la calma che avevo perduta. In una piazzetta vidi alcuni soldati che stavano cuocendo il loro pranzo su un fuoco improvvisato e mi accostai. Mi invitarono a cena. Anche loro dovevano andare verso il fiume e suppongo che anche loro fossero stati fermati dal calar della sera, incapaci di vincere la solitudine che li avrebbe attesi nella pianura ancora macabra, dove l’agguato non era più degli uomini, ma delle cose, delle piante, delle ombre.

Mangiammo in silenzio, poiché il pensiero di riprendere la strada, il giorno dopo, li amareggiava. Io ero lieto, vinta ormai ogni inquietudine. Era inevitabile che il discorso cadesse sulle previsioni del ritorno, mi ci appassionai e i soldati stavano a sentire i miei argomenti ottimisti senza entusiasmo e non contraddicevano. Non volevano e non potevano contraddirmi.

Qualcuno si era fermato alle nostre spalle.

“Tenente. “

Mi levai in piedi e vidi il maggiore, presso la soglia di una baracca illuminata. Sempre elegante, le mani dietro il dorso, gli stivali che brillavano ai riflessi del nostro fuoco. Quando lo raggiunsi mi invitò a entrare e per un attimo stemmo in silenzio, lui cercando le frasi della sciocca ramanzina, io le scuse. Infine si decise. Avrebbe dovuto farmi rapporto, ma sapeva bene che era inutile. Però si chiedeva che gusto ci provassi a incanaglirmi in quel modo. Barba lunga, frequentavo le case indigene, mangiavo seduto a terra come uno zingaro. Si chiedeva che concetto poteva farsi di me un indigeno.

Aveva parlato con voce molto calma, tutto era un pretesto perché s’annoiava. Comunque, gli feci notare che non avevo più la barba lunga; m’ero, seduto a terra con quei soldati perché m’avevano invitato alla loro cena e non c’era da rifiutarsi: del resto, avevo mangiato benissimo. Quanto alle case indigene, si trattava di un equivoco.

Mi guardò sorpreso, ripeté più volte interrogativamente la parola equivoco. “Ma se vi ho visto con i miei occhi” concluse. Risposi che c’eravamo andati per sentire un po’ di musica.

“Che genere di musica?” chiese, ridendo poi del suo stesso scherzo, e prese da uno scaffale una bottiglia di cognac. Era quella, dunque, la sua baracca. Viveva tra un cumulo di casse della Sussistenza, merce di ogni genere. La sua eleganza ne risaltava, ma accresceva anche il sospetto di un legame preciso tra il grosso anello che portava alla destra, ornato di un brillante, e il tanfo di droghe che si sprigionava dalle assi del pavimento, certo avvezze a sopportare il peso di un abile commercio. Bevemmo. Il cognac era vecchio e il caldo della notte aiutò a stordirci. Ridevamo, ormai amici, ognuno stimando dell’altro le qualità peggiori.

L’argomento che aveva sfiorato lo interessava troppo. Mi chiese se ero ammogliato e, quando gli ebbi risposto, parve soddisfatto: questo era un punto a suo vantaggio. Sul tavolo vicino alla branda c’era la fotografia di una donna estremamente spiacevole. Vide che la stavo osservando e disse che era sua moglie. Nel tono della voce scoprii il rimpianto di quel matrimonio fatto in fretta, per ragioni che forse aveva dimenticate, o almeno ripudiate. Tuttavia, la donna nel portaritratti sorrideva. Da quel sorriso si deduceva senza sforzo lo stile dei mobili dell’appartamento, le tendine, il mediocre ordine che le regnava attorno. E la noia.

Allora feci un elogio delle ragazze indigene: erano semplici come colombe, dolci, disinteressate, incluse nella natura. Non restava che coglierle.

“Lei s’illude” disse. Ora mi dava del lei.

“Nient’affatto” risposi. Aggiunsi che non sarebbe durato ancora molto, in pochi anni avrebbero acquistato il concetto del tempo, che adesso mancava loro totalmente. “Quando scopriranno il Tempo, “ dissi “diverranno come tutte le ragazze di questo mondo, ma di un genere inferiore, molto inferiore. Ora mi divertono,” aggiunsi “perché sanno perdere tempo, proprio come gli alberi e gli animali.”

Dunque, queste considerazioni mi spingevano a perder tempo con loro? E il maggiore rise. Bevemmo ancora. Ero stordito. “E questo” dissi “è il cognac delle cassette.” Non capì. Ripetei la frase e aggiunsi: “Nella cassetta dell’infermiere la bottiglia del cognac è sempre vuota”. (Ma forse, pensavo, l’infermiere non sarebbe venuto.)

Mi versò ancora da bere e disse seccamente: “Lei è un ragazzo”. E si levò. Credetti di averlo offeso, invece rideva e uscì un momento dalla baracca, barcollando. Allora, spinto da una curiosità davvero puerile, aprii il cassetto del suo tavolo. Sapevo che vi avrei trovato quella ragionata confusione, quelle scatole piene di mozziconi di matite, di temperini, di francobolli, e di lettere legate con spaghi. E anche rimasugli di ceralacca. Ero soddisfatto. L’eleganza del maggiore mi appariva la facciata di un sordido edificio che potevo visitare a occhi chiusi. Quando rientrò gli proposi di andare a svegliare le due ragazze (volevo soltanto rivedere quella che s’era seduta accanto a me, guardarla negli occhi e convincermi che le mie fantasie non meritavano molta attenzione). Il maggiore accettò, grato che fossi io a proporre la partita. Avrebbe studiato l’ambiente, avrebbe controllato se quanto dicevo era vero. E io ricordavo quel seno libero nella tunica, ma come si pensa a una prova che occorre distruggere. Le tempie mi battevano e già mi spaventava questa vendetta impensata di lei. Non sarei più tornato al campo.

“Portiamo una bottiglia?” disse il maggiore.

Le ragazze non volevano aprire, si decisero dopo lunghe confabulazioni: e una di esse era rimasta a letto, giaceva quasi scoperta, come un caldo blocco di granito. Poiché c’era pochissima luce, il maggiore prese a palpare la ragazza, cercando di dare ai suoi modi un carattere scherzoso. “Su, sveglia!” diceva. In realtà metteva le mani sotto la tunica, sostava ammaliato, mi si rivolgeva con esagerata sorpresa, invitandomi a constatare che era proprio una bella ragazza, molto ben fatta, davvero molto ben fatta. “ Senta qui, tenente.”

Sì, era proprio il tipo che avevo sospettato quel giorno che s’era messo a passeggiare su e giù davanti alla porta. Ora stimavo una vittoria, benché facile, esser riuscito a portarlo dove volevo.

L’altra ragazza fingeva di non riconoscermi, o non mi riconosceva davvero: non avevo più la barba lunga e non c’era motivo che lei fingesse. Stava in piedi sullo sgabello, caricava il fonografo, lenta, e quando l’afferrai, sorrise. I suoi piedi toccarono il pavimento e io la lasciai: in quel corpo c’era l’indolenza che temevo. Mi chiesi se per questo avevo lasciato il camion proseguire oltre la collina, per ritrovare questo qualcosa che avevo già seppellito assieme ad altri errori. “Ricominceresti daccapo?” pensai. Ero confuso, sicché mi sedetti sulla pietra del focolare e il maggiore, forse impacciato dal mio contegno improvvisamente serio, sturò la bottiglia, ridendo, chiedendomi una complicità che non ero più capace di dargli. Quando mi porse il liquore e disse: “ Su, beviamo” rifiutai. Era quello, dunque, il cognac della cassetta.

Bevve lui un lungo sorso, per infondersi un po’ di coraggio, per infonderne a me, altrimenti non avrebbe resistito e tanto valeva che andasse a dormire. Non avrebbe resistito alle ombre che la lampada creava negli angoli della stanza, e che avevo dimenticate.

Bisognava bere. Dopo un po’ mi sentii meglio e potei anche sorridere delle preoccupazioni che la mia mente si divertiva a propormi. Tutto era molto più elementare, io seguitavo a vivere ed era umano (anzi, giusto), che seguitassi a desiderare ciò che prima avevo desiderato. Se quella lunga solitudine mi consigliava di dare un estremo valore a un corpo indolente e a due occhi che conservavano ancora la supposta luce dei secoli scorsi, niente di male. Cercai la ragazza, era andata nella sua stanza e mi sorrideva. “Accettiamo la lezione di costei” dissi ridendo; e stavo per avviarmi, quando fui trattenuto dal chiasso dell’altra coppia.

Il maggiore tentava di far inghiottire un sorso alla ragazza, ma ella si difendeva cortesemente. E il maggiore ne approfittava per gettarlesi addosso, ormai convinto che non l’avrei giudicato. Ma la ragazza si difendeva, purtroppo senza crederci, e quella scena mi parve insopportabile.

L’altra ragazza era nel suo letto e aspettava.

Fuori c’era la buia notte della decadenza, senza ladri e senza nottambuli. Molti mesi prima, passando per Port Said avevo visto dal piroscafo l’ultima notte europea, i tabarin messi lungo il molo per dar tempo ai turisti di spendere la valuta rimasta in tasca. E una voce simile a quella che usciva ora dal fonografo, veniva dal molo. Potevo sentire da bordo, a quella distanza, i colpi dei tappi dello champagne, l’allegria un po’ spaventata dei turisti, che volevano divertirsi, ma non giungere agli eccessi che la notte e l’impazienza del ritorno consigliavano. Ed erano molto incerti se cedere all’arabo che proponeva una visita a quella tal casa. Andarci! Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza.

M’accostai al maggiore e dissi: “La smetta”. Non ne fu sorpreso e allora aggiunsi: “L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, eh?”. Scoppiò a ridere e le sue mani andarono rapide attorno alla vita della ragazza che gli sedeva accanto. Presi a ingiuriarlo, ma egli seguitò a ridere e la sua socievole allegria, invece di calmarmi, aumentò l’inquietudine che mi tormentava. Ero io quell’uomo acceso? Conservavo lettere, fotografie, mi stimavo diverso da tutti gli altri? Ecco, il volto del maggiore si offriva come un bersaglio lungamente atteso. Era certo il volto di una qualsiasi persona, ma in quell’istante le rughe che lo segnavano non erano parole di una vecchia lapide che chiedevano soltanto lo sforzo di una traduzione? “Se uccidessi quest’uomo,” pensai “seppellirei anche la parte peggiore di me stesso.” Ma poiché il maggiore si incuriosiva, dissi: “Si diverta pure, buonuomo”, e mi intenerii sinceramente quando daccapo abbracciò la ragazza. “Le sue mani vogliono soltanto rendere un omaggio alla lunga noia dell’esilio” conclusi.

L’altra ragazza era sul letto, ora guardava le pareti della stanza e non vedevo più il suo volto. Ma la sentivo assente, immersa nella sua cupa pazienza, e i suoi pensieri non dovevano essere dissimili dai pensieri che precedono il sonno.

Perché ero in quella casa? Che c’ero capitato a fare? Quando la lingua toccò l’incavo ancora sensibile della gengiva, rammentai tutto e conobbi la tristezza del prigioniero che vede giungere la sera e non è più capace di ridere. Il giorno è finito, domani si ricomincia, e l’unica speranza era forse quella lettera nella tenda del postino. Una lettera spiegazzata e, dentro, la sua scrittura fine e rotonda, con qualche parola vergata in fretta e la firma più timida che io conosca. Raggiungere quella lettera, anche subito! Ma i camion erano fermi e gli autisti dormivano col fucile al fianco. E poi... avrei ripreso la via del fiume e delle montagne? “No, “ dissi “all’alba verso l’Asmara e al diavolo ancora le conseguenze. “

La ragazza mi aspettava e io bevvi, sino a vedere girare la stanza e le ombre della stanza. Bevvi di proposito, perché detesto ubriacarmi e non speravo da quell’alcool nessun sollievo. Non gli avrei certo chiesto un sollievo che soltanto io ormai potevo darmi, raggiungendo la ragazza nel suo letto e convincendomi che una vale l’altra. “Non è restato fuori nulla, tutto è nella tomba” dissi. Bisognava però caricare il fonografo, bere, sculacciare la ragazza, incoraggiare il maggiore: poiché è deciso, non sarei tornato al fiume. Ricoverarsi in un ospedale? Vedremo.

Le ragazze ridevano vedendoci così allegri, segno che la festa riusciva. Peccato non poter chiamare le nove (o dieci?) vicine coi loro bimbi. Forse era quello il momento di mettere la marcia militare? Ma sì, mettiamola pure. Quando il maggiore sentì le note marziali, corse a togliere il disco e poi a sdraiarsi sul letto della ragazza. Non sopportavo la sua improvvisa disinvoltura. Entrai nell’altra stanza e stetti a guardare la donna, già coricata, che m’aspettava senza annoiarsi. Sedetti sul letto e la guardavo, anzi la consideravo. La sua pelle non era molto chiara, e il suo sorriso era quello di un buon animale domestico che aspetta. Restava immobile, non immaginando che la vedessi con tanta lucidità. “Era simile a questa” dissi. “Simile a questo animale che la solitudine aggravata dalla noia ti propone come un miraggio.” O non cercavo di ingannarmi? Non cercavo una scusa che mi confortasse? Fui lieto trovandola nell’odore della donna, un odore vegetale, da albero paziente, misto a un profumo così dolce da dare la nausea. Non osavo toccarla, se il letto si fosse messo a girare, come temevo, dovevo andarmene. E invece bisognava restare. Tentai di fissare la donna negli occhi, aveva le pupille color nocciola, come del resto tutte le dame di quaggiù. Scoppiai a ridere. “ Hai visto anche occhi verdi e grigi, che qui non esistono. Vuoi sapere di chi sono gli occhi verdi e grigi? Per favore, chi ha uno specchio?” Seguitai a ridere e la donna rise anche lei, pazientemente, senza capire.

“Maggiore,” dissi. Mi rispose con un grugnito. “Maggiore,” ripetei “s’è mai trovato in battaglia?”

Rispose di sì, a fatica, un po’ meravigliato. “È possibile,” chiesi “che un soldato metta fuori le budella e poi guarisca? “

Benché seccato, disse che tutto era possibile e che lo lasciassi in pace. La ragazza che giaceva accanto a me allungò un braccio e una tenda di cotone divise le due stanze.

Dovevo insistere? Non avrei saputo egualmente, chiedendo a un medico, il giorno dopo, a quel medico che legge i suoi giornali nel boschetto di eucalyptus? “Quando si è feriti al ventre, “ dissi “è un’altra cosa. “

“Un mio soldato se l’è cavata” rispose il maggiore e sentii che la ragazza rideva, forse per il solletico.

“L’hanno operato subito?” chiesi e riuscii a sedermi sul letto. “Dopo sei o sette ore.” Nella sua voce c’era l’impazienza per il dialogo al quale lo costringevo.

“Supponiamo,” dissi (e la donna mi guardava, paziente, sorridendo, senza chiedersi la ragione del mio indugio) “supponiamo che io spari un colpo al ventre a questa ragazza ...” Già mi chiedevo cosa poteva capirne il maggiore. Non era inutile ormai porsi simili quesiti infantili, accanto a quella ragazza che continuava a sorridere?

“Se ha voglia di sciupare cartucce, faccia pure” rispose. Poi aggiunse: “Le racconterò un fatto”. E raccontò di una strage alla quale aveva assistito. “Erano briganti,” disse “e il colonnello li voleva ammazzare tutti, anche i feriti. Occhio per occhio, diceva. E dove trovava un ferito, sparava. Sparava alla pancia. E quelli restavano a guardarlo, coprendosi gli occhi con la mano, lo guardavano di tra le dita. Venne il dottore e disse: “Ma se lei non gli spara alla testa, non conclude nulla con questa gente”. Allora il colonnello cominciò a sparare alla testa del primo ferito che vide. Il cranio scoppiò e il colonnello si trovò imbrattato. Se l’avesse visto! Era su tutte le furie. Investì il dottore di insulti: “Bei consigli mi da, lei” urlava. Dovette andarsi a cambiare. “

La lampada a petrolio dava fastidio a tutti e io non sopportavo quella luce da caverna e le ombre che creava agli angoli della stanza. Si alzò il maggiore e la spense. Nel buio improvviso sentii che tornava a tentoni verso il suo letto, cercando di ridere, cercando di sentire soprattutto il suono del mio riso, che non veniva. La donna accanto a me voleva dirmi qualcosa all’orecchio, e rideva sommessamente.

“Capisco,” dissi “se si tratta di ferite leggere.” Ma il maggiore non desiderava seguitare quel discorso e gridò scherzosamente: “Buona notte”. Poi, dovetti sdraiarmi, la testa mi girava, colpa del liquore bevuto. Ora la notte era penetrata anche in quella casa e il letto ondeggiava sulle acque di un lago molto profondo e chiuso tra montagne ingrate più di quelle che aspettavano oltre il fiume. E perché la gengiva doleva ancora?

La donna mi stava accanto, silenziosa. Dovevo chiederle almeno il nome, sentivo il suo respiro tranquillo e il morbido corpo che riposava in un’attesa profonda e pigra, ma non potevo sopportare il suo odore, era un odore denso, da animale cristiano, c’era odore delle sacristie e dei cani randagi e anche l’odore delle tuberose in una stanza calda.

“Come ti chiami?” dissi, ma la ragazza non capì. Stavo per ripetere la domanda, quando un soldato (chi poteva essere se non un soldato ubriaco?) batté alla porta del cortile e una voce aspra gridò alcune parole. Mi levai a fatica. La ragazza, senza muoversi, rispose prontamente e anche l’altra intervenne e gridò a sua volta; voleva dire alla compagna di non fare entrare l’importuno, ma gridava come se già la stanza fosse invasa. L’uomo che stava fuori urlò, poi dette uno scossone alla porta e infine sentimmo che si allontanava.

La ragazza allora mi afferrò per un braccio e mi trasse a sé, facendomi cadere sul letto. Ma subito la respinsi e così la lasciai, sorpresa e già svestita, mentre raggiungevo la porta. Dissi al maggiore che uscivo un momento e corsi verso la piazza.

Mi fermai davanti alla chiesa, mi era parso di sentire dei lamenti. Avvicinandomi alle baracche messe ai lati dell’ingresso, nel buio intravidi un groviglio di cenci e di carni, erano parecchi indigeni là ammucchiati, si lamentavano, ma fiocamente, come se fossero stanchi anche loro di quelle grida che non trovavano eco. Vedendo che mi avvicinavo, qualcuno tacque, aspettando. Erano mendicanti, immagino. Gettai loro qualche moneta e ripresi la corsa verso il comando tappa. Là avrei atteso l’alba e il primo camion diretto al fiume.

Non avevo dato ancora uno sguardo alla valle del fiume, che sprofondava proprio in quel punto. L’altopiano si interrompeva rompeva e tra poco sarebbe cominciata la prima discesa. Quando il soldato salì sul predellino dell’autocarro, che s’era fermato al posto di blocco, lo riconobbi, era un soldato della mia compagnia. Poi vidi altri due soldati, poi tre, tutti della mia compagnia. “E cosa fate qui?” chiesi al soldato ch’era salito sul predellino e che salutava sorridendo. “Cosa fate qui?” ripetei.

Mi disse che il battaglione s’era trasferito in quel luogo da cinque giorni.

Il mio sguardo dovette tradire lo sgomento, ma il soldato vi lesse l’improvvisa felicità per quella notizia, che mi dava per primo, e che voleva significare un’altra tappa verso la costa, anche se la costa era ancora tanto lontana. Rise poi della mia sorpresa, mi tolse dalle mani lo zaino e si diffuse in particolari.

Ci avviammo per una stradetta e poco dopo comparivano le prime tende dell’accampamento. E il soldato continuava a parlare del ritorno, come tutti immagino, adesso che non c’era più niente da fare. Voleva le mie impressioni, poi mi chiese se avevo saputo del cantiere.

“Quale cantiere?” chiesi.

“Il cantiere giù al ponte” e subito fu lieto di raccontarmi ciò ch’era successo. C’era stato un assalto di briganti e avevano ferito otto operai. E, forse, proprio per quel motivo il battaglione era stato trasferito. Intanto gli zaptié avevano già rastrellato la zona e ora noi dovevamo restarci e controllare tutto il fiume. Certo, ogni giorno c’era servizio di pattuglia, ma il battaglione non s’era avvicinato alla costa? E quel posto non era bello? Mille volte migliore dell’ultimo, sulle montagne, dove i pidocchi entravano volando nelle tende, adesso che cominciava la stagione umida. “Sì, certo” dissi.

Sul ciglio che dominava la valle e la strada, sedevano i soldati, parlando del prossimo ritorno. Quello spostamento aveva riacceso le speranze dei più pessimisti e ora tutti si incoraggiavano con grida che rimbalzavano da tenda a tenda. Ogni soldato sapeva almeno i segreti di un altro ed era quella una magnifica occasione per accennarvi, facendo proprie le gioie altrui, partecipando in ispirito ai futuri fidanzamenti, alle future nozze. Si sarebbero rivisti tutti, una volta in Italia, e l’amicizia nata sotto la tenda avrebbe tinto di rosa i ricordi più foschi e fatto apparire a distanza di pochi anni tutto lieto e piacevole, anche le marce di dieci giorni, anche la sete e la stanchezza, anche il caldo e la paura. Ora bisognava affrontare gli ufficiali, superiori e amici. Decisi che li avrei affrontati tutti assieme, era un’astuzia elementare. Nella tenda del maggiore o del capitano il discorso sarebbe stato serio, nella tenda della mensa avrebbero giocato altri fattori, il piacere di trovarsi a tavola, le urla improvvise dei colleghi al mio apparire. Portavo un pacco di sigari e due bottiglie di liquore. E molti libri. M’avrebbero perdonato.

Quando apparii sulla soglia della grande tenda, tutti mi guardarono sorpresi, come i poliziotti potrebbero guardare l’inafferrabile che ha eluso per anni la cattura e ora viene a consegnarsi, ora che la sua pratica è stata messa in archivio. Forse non m’aspettavano più. Oppure il trasferimento aveva fatto sembrare breve la mia assenza. Oppure m’avevano già denunciato per diserzione. No, impossibile. Ma non capivo bene. Perché quella gente non rispondeva al mio saluto e restava col cucchiaio in aria? Perché tutti tacevano? Un lampo mi traversò la mente: l’hanno trovata. Ho lasciato un segno. Oppure sono stato visto. Ma da chi? Restavo sulla soglia, incapace di fare un passo.

“Bentornato” disse il maggiore seccamente, e allora capii che non sapeva nulla, che nessuno sapeva nulla. Era il tono di voce del superiore stizzito: nient’altro.

La mia allegria proruppe. Già mentre elencavo le prime giustificazioni cominciarono le risa degli amici. Per il troppo ridere il tenente B. ebbe un accesso di soffocazione (stava mangiando), e questo diversivo tornò a mio vantaggio. Fu poi il dottore ad aiutarmi, senza volerlo, urlando che qualche donna mi aveva trattenuto. Messa la cosa su quest’avvio, ben presto non si parlò più del mio ritardo, ma soltanto delle ragioni che l’avevano provocato. E ognuno azzardava supposizioni. E ognuno meditava un futuro ritardo, quando sarebbe stato il proprio turno. Il mio precedente infrangeva gloriosamente la regola.

Così non la pensava il maggiore, che era rimasto corrucciato, incapace di frenare l’allegria altrui e incapace di parteciparvi. In fine si decise. “Suppongo,” disse “che il vostro dente non vi dolga, ora.” Declamò con ironia, pesando le parole, sicuro di aver colpito giusto. Tirai fuori il portafogli: “È qui!” dissi, calmo.

Avevo vinto, quello scoppio di risa me lo diceva. Dovetti però sedermi, mangiare, raccontare, provocare altre risa. Fu inevitabile. Quando più tardi entrai nella mia tenda, sulla branda c’erano due lettere.